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È UN VINO, È UNA REGIONE: È BEAUJOLAIS. PART 2

Beaujolais Saint-Amour

Beaujolais Nouveau a chi?

Io, spesso, faccio le cose all’inverso. Non so se avete presente i manga, che nel loro formato originale si leggono, secondo una mentalità occidentale, al contrario, ovvero partendo dalla fine.

Ecco, anche con il vino, talvolta, seguo quest’ordine inverso. Per lo meno, questo è quel che è successo per quanto riguarda il mio incontro con il Beaujolais!

Sì, perché il primo Beaujolais che ho assaggiato non era certo quello che tutti si sarebbero aspettati, ovvero un Beaujolais Nouveau. No, nel mio caso era un Beaujolais Blanc! E questo incontro, ha avuto una tale risonanza nel mio spirito, da farmi passare giorni e giorni ad investigare, non solo sul Beaujolais Blanc, ma anche su tutto il Beaujolais, in generale.

Insomma, é stato come scoperchiare il vaso di Pandora, ma senza troppe catastrofi, se non per le mie finanze!

Non paga, durante le mie peregrinazioni su FB, sempre alla ricerca di interessanti eventi legati al mondo del vino, mi sono imbattuta in quel che sembrava essere il degno seguito di questa mia enoica avventura…

Dentro i cru del Beaujolais.

Nello specifico, l’evento, che aveva luogo da Vino[1], ed era tenuto da Giorgio Fogliani[2], si prefiggeva il nobile scopo di dimostrare come il mondo del vino sia stato e sia, tuttora, piuttosto ingiusto nei confronti del Beaujolais e dei suoi vini. Vini che pagano, troppo spesso, lo scotto di una scarsa considerazione sia per il vitigno principale, il gamay noir à jus blanc, considerato una specie eccessivamente produttiva e di basso livello qualitativo, sia perché, nell’immaginario comune, anche francese, se dici Beaujolais, dici Beaujolais Nouveau.

E, dunque, potete ben immaginate la mia gioia, quando ho scoperto che i vini più giovani in degustazione avevano due anni, ma ce ne erano anche alcuni di 4 anni e addirittura uno di 8 anni!

Continuando, così, nel mio approccio inverso, dal Beaujolais Blanc, ero pronta ad avvicinarmi al Beaujolais più di nicchia, quello più longevo, e forse meno noto, tenendomi, almeno per ora, ancora lontana dal Beaujolais Noveau.

La serata ha avuto inizio poco dopo le 20.30.

In tutto 10 partecipanti, di cui 8 diplomati AIS, 1 diplomato ONAV, e io… che, come ben sapete, non ho altro che nozioni acquisite leggendo qualsiasi cosa parli di vino, etichette delle bottiglie comprese, e tanta pratica ancora da fare!

Capirete bene come, per me, i primi istanti siano stati di puro terrore!

Circondata da esperti della materia, che in pochi secondi, e con una pregevolissima proprietà di linguaggio, ti snocciolavano le loro impressioni sui vini proposti. Mentre io, con il mio fedele quadernetto, un naso, un palato e un vocabolario ancora immersi nell’ignoranza, cercavo di venire a capo della cosa.

C’è stato un momento, molto breve, in cui ho pensato: ecco, forse, se sgattaiolo via ora, non se ne accorgerà nessuno…

Tuttavia, sono rimasta, troppo curiosa per rinunciare, anche a costo di fare qualche figura barbina! e meno male, perchè è stata una bellissima esperienza.

Ma sto divagando, come al solito… dunque, dicevo eravamo in 10, come i crus del Beaujolais!  escludendo dalla conta Giorgio, ovviamente.

I vini proposti erano:

    1. Saint-Amour 2016, Château des Rontets;
    2. Brouilly 2016 Marcel Lapierre;
    3. Moulin-à-Vent 2016, Domaine des Terres Dorées, di Jean-Paul Brun;
    4. Fleurie La Madone 2014, Chamonard;
    5. Morgon Côte-du-Py 2016, Jean Foillard;
    6. Morgon 2009, Chamonard;

Anche se i vini in degustazione appartenevano solo a 5 dei 10 Crus del Beaujolais, nello specifico: Brouilly, Saint-Amour, Morgon, Fleurie e Moulin-à-Vent, Giorgio si è preoccupato di darci una panoramica su tutta la regione.

Dunque, un primo momento, lo ha dedicato a raccontarci il Beaujolais, le sue AOC, i suoi crus, climats[3] e lieux-dits[4], regolamentati e non, soffermandosi, soprattutto, sulle caratteristiche geologiche del territorio, sulle tipologie di vinificazione e sul movimento vinnaturista di Marcel Lapierre e Jules Chauvet[5].

Il racconto è stato interessante e, oltre modo, coinvolgente, tanto che, ad un certo punto, io i luoghi che Giorgio raccontava li vedevo, e anche molto chiaramente, nella mia mente, come vedevo l’uva nei suoi tini a macerare, e gli acini trasformarsi lentamente…

Ma, dopo tanto parlare, anche Giorgio aveva una certa sete! … motivo per cui, ha tirato fuori le prime 3 bottiglie della serata, con sommo gaudio di tutti i partecipanti, ma anche un pochino di ansia da prestazione, nel mio caso!

dentro i cru del Beaujolais    dentro i cru del Beaujolais

Il primo vino era un Beaujolais Saint-Amour, per l’esattezza, un Saint-Amour 2016 Château des Rontets.

Piccola nota romantica, degna di un cru chiamato Saint-Amour: i proprietari di questo Château, Claire Gazeau e Fabio Montrasi, entrambi architetti a Milano, decidono di sconvolgere la propria esistenza, rinunciando, nel 1995, alla loro carriera per trasferirsi in Francia. Lì prendono in mano le redini dell’azienda della famiglia Gazeau ( dal 1850).

La maggior parte dei loro vitigni ricade sotto la AOC Pouilly-Fuissé, mentre solo due piccole parcelle ricadono nel cru Saint-Amour, per un totale di circa 0,5 ettari di Gamay. Le due parcelle in questione si trovano a Côte de Besset, uno dei dodici climats di Saint-Amour. Sono situate in altitudine e esposte ad est, su formazioni vulcanico-sedimentarie primarie, ricche di silice, e su suoli limo-sabbiosi, caratterizzati da una forte pendenza e pietrosità.

La Côte de Besset, corrisponde al versante est della collina situata tra i villaggi di Saint-Amour, Pruzilly e Julienas e, a differenza degli altri climats della AOC, ha dei suoli relativammente poco sabbiosi; in generale, da vita a vini che si esprimono più per finezza ed eleganza che per intensità.

Il tipo di allevamento adottato in vigna è quello tradizionale ad alberello (taille en gobelet)[6].

Apprendo, in parte da Giorgio, in parte dal loro sito[7], che questo Beaujolais incarna il lavoro fatto da Jule Chauvet, vinificato secondo il metodo della macerazione carbonica messo a punto agli inizi degli anni ’50[8].

Il vino.

Per quel che riguarda il vino in degustazione, io personalmente ho visto un vino limpido, luminoso, di un color rubino non particolarmente carico. Al naso, le classiche note di frutti rossi, qualcosa di floreale, ma anche una bella nota vegetale che aggiungeva freschezza ad bouquet che ho trovato molto gradevole.

In bocca, mi è parso coerente con il naso, secco, caldo, abbastanza morbido e setoso, i tannini molto rotondi, con una bella sapidità e una bella acidità. Un vino fresco e piacevole sotto tutti gli aspetti, comunque strutturato ed equilibrato, oserei dire un vino che può fare ancora un po’ di strada.

Il secondo vino in “gara” era, niente di meno che, un Brouilly 2016 Marcel Lapierre[9], e scusate se è poco!

Il Domaine Lapierre si trova a Villié-Morgon, nel cuore del Beaujolais, gli ettari di proprietà sono circa 13 e si distendono attorno al comune di Villé-Morgon e 2 sulla Côte du Py, appartenenti alla zona più importante del Beaujolais: Morgon.

L’azienda è condotta secondo criteri di agricoltura naturale sin dal 1981. Nel 1995, il papà di Mathieu, Michel Lapierre, ha rilevato inoltre Château Cambon dove nasce il nostro Brouilly “Château Cambon”, da vigne di età media di 50 anni, piantate su 2 ettari di terreni granitici e argillosi, ed allevate ad alberello. Le uve vengono raccolte a mano e accuratamente selezionate, prima di subire la macerazione carbonica e la fermentazione spontanea in contenitori di acciaio, dunque senza lieviti e solfiti aggiunti, mentre l’affinamento viene fatto in botti di rovere usate da 216 litri per 6/9 mesi.

I vini vengono poi imbottigliati secondo due modalità:

  1. Senza filtratura, ma con aggiunta di solfiti;
  2. Senza filtratura nè aggiunta di solfiti.

Tutti i vini di questo Domaine sono classificati TripleA(Agricoltori, Artigiani, Artisti)[10].

E il vino?

Allora, limpido e luminoso, di un rubino più carico del precedente, e con un bouquet, a mio dire, più complesso del precedente. Personalmente, ho riconosciuto frutta rossa e nera matura, forse ciliegie, una nota vegetale, qualcosa di minerale, azzarderei una nota ferrosa, aveva anche un che di piacevolmente terroso, ma anche note speziate, un lieve e piacevole accento legnoso e della liquirizia. Nel complesso, l’ho trovato molto piacevole ed equilibrato al naso, nonostante i tanti riconoscimenti.

In bocca, si è confermato un vino abbastanza fresco e morbido, con un tannino setoso e una piacevole mineralità. Inoltre, anche in questo caso, a me è sembrato ci fosse coerenza tra naso e bocca. Il mio personale giudizio, per quel che può valere, è che, nonostante Brouilly sia forse il cru meno considerato, vista la sua vastità e l’alta probabilità di trovare vini scadenti, io questo vino l’ho gradito di più del primo.

Spero non me ne voglia Giorgio!

L’ultimo della tripletta era un Moulin-à-Vent 2016 del Domaine des Terres Dorées.

Questo Domaine, a conduzione familiare, situato a Charnay-en Beaujolais, nei pressi di Villié-Morgon, è gestito da Jean-Paul Brun.

Le vigne si distribuiscono su 44 ettari di terreno, dislocati su differenti terroir. I vitigni coltivati sono Gamay, Chardonnay, Pinot Noir e Roussanne, e le denominazioni prodotte sono Moulin-à-Vent, Morgon, Brouilly e Fleurie.

Jean-Paul Brun, che viene considerato un maestro nella regione, utilizza metodi di agricoltura biologica, terreni lavorati con l’aratro, rame o zolfo come antiparassitari, vendemmie manuali a piena maturità, fermentazione sui propri lieviti.

Rispetto ai vini precedenti, questo rappresenta una sorta di “eccezione”, poiché la vinificazione è quella tradizionale borgognona, ossia diraspatura, macerazione lunga e rimontaggi regolari, mentre l’affinamento viene fatta in parte in cemento e in parte in botti.

Le vigne, coltivate ad alberello, da cui nasce questo vino hanno mediamente 50 anni e crescono su un suolo di granito rosa friabile, poco sopra il villaggio di Chénas.

Il vino.

Il vino in questo caso, è limpido, color rubino carico. Il suo bouquet è ricco di note fruttate, ciliegia, ma anche floreale, forse violetta, un vago accento legnoso, spezie, liquirizia, una nota minerale ferrosa e qualcosa di sottobosco. In bocca, mi è sembrato che avesse ancora una bella freschezza, caldo e piuttosto morbido, con tannini ben arrotondati e una piacevole sapidità.

Mi è sembrato un vino ben equilibrato, diverso dagli altri, ma poi neanche tanto quanto ci si aspetterebbe da una vinificazione tradizionale.

Finita la prima tripletta, siamo passati ai restanti 3 concorrenti della serata!

Questa volta abbiamo, nell’ordine: Fleurie La Madone 2014 Chamonard, Morgon Côte-du-Py 2016 Jean Foillard, Morgon 2009 Chamonard.

dentro i cru del beaujolais     dentro i cru del beaujolais

Il primo vino, Fleurie La Madone 2014, è prodotto dal Domaine Joseph Chamonard, gestito da Jean-Claude Chanudet, detto le chat, e sua moglie Genèvieve Chamonard dal 1986, su un demi-ettato di territorio granitico.

Anche qui, il gamay viene coltivato ad alberello, inoltre le viti hanno circa 60 anni.

Chanudet fa parte del gruppo di irriducibili del movimento vinnaturista creato da Jules Chauvet e Marcel Lapierre. Ha optato per una viticoltura biologica che rispetti il territorio, inoltre l’intervento umano è ridotto al minimo indispensabile, così da poter preservare il più possibile l’autenticità del prodotto. L’affinamento viene fatto in botti di rovere sia nuove che di secondo e terzo passaggio, i solfiti aggiunti hanno livelli bassissimi. Si tratta di vini dotati di una grandissima capacità di evolversi, migliorare e affinarsi sostando in bottiglia.

Il vino.

Il vino, nel calice è limpido, color rubino con lievi riflessi granati. Al naso, abbastanza intenso e complesso, con note di frutta rossa, ma anche vegetali (direi foglia di pomodoro). Ha una forte mineralità, caratterizzata da note salmastre e iodate, a tratti ricorda le olive in salamoia. Mi è parso di percepire anche delle leggere, e gradevoli, note di tostato e di legno, oltre che un accenno di liquirizia.

Per essere un vino del 2014, quindi con già 4 anni sulle spalle, a me è parso un vino fresco, con un tannino, presente, piacevolmente arrotondato, e una bella sapidità. Inoltre, l’ho trovato caldo e morbido, con una bella struttura e nel complesso ben equilibrato. Il suo sapore intenso e abbastanza persistente, rispecchiava quello che si sentiva al naso.

Un ottimo vino, che da già grande piacere e che, a mio personale parere, deve ancora arrivare alla sua completa maturità.

Il secondo di questa tripletta, Morgon Côte-du-Py 2016, viene prodotto dal Domaine Foillard, situato nel cuore del territorio vitivinicolo del Beaujolais, nel dipartimento Sâone-et-Loire.

Jean Foillard ha iniziato nel 1981, quando ha preso in mano le redini dell’azienda di famiglia e acquistato una casa in prossimità del famoso Côte du Py (vulcano spento). Oggi è considerato un riferimento assoluto per il Beaujolais.

Il suolo su cui insistono i suoi vigneti, per un totale di circa 8 ha, è dunque un sottosuolo di origine vulcanica, ricco di manganese, costituito da una matrice granitica, da una parte di scisto decomposto. Quest’ultima viene anche detta “pierre pourrie” (pietra marcia). Ed proprio questo suolo a conferire grande complessità a questo vino.

Tanto la vigna quanto la cantina sono a conduzione naturale.

Infatti, da oltre 25 anni, segue i principi della viticoltura biologica, con raccolta manuale delle uve, macerazioni semi-carboniche, a freddo, e fermentazioni spontanee di uve non diraspate, con lieviti indigeni, affinamento in legno usato, per 4-5 mesi, senza filtrazioni né aggiunte di solfiti.

Il vino.

Nel mio calice ho trovato un bel vino, limpido, rubino carico. Il naso, abbastanza intenso e complesso, aveva caratteristiche note di frutta rossa matura, che si amalgamavano con note minerali, soprattutto ferrose, ma anche vegetali che ricordavano a tratti il carciofo. Inoltre, si percepiva qualcosa di vagamente balsamico e della liquirizia.

Caldo e morbido in bocca, ma nel contempo fresco, sapido e dotato di tannini morbidi e setosi, il vino ha una bella struttura e mi è parso ben equilibrato, anche per l’intensità e persistenza.

E, dulcis in fundo, l’ultimo vino in degustazione… Morgon 2009 Chamonard, con ben 9 anni sulle spalle, ma più che ben portati!

Qui il vino é limpido, con un bel rubino carico, che lo fa sembrare un vino decisamente più giovane di quel che dice “l’anagrafe”.

Al naso si percepiscono note salmastre, di olive in salamoia, il fruttato è ancora ben presente. Inoltre, ci sono lievi note floreali, di rose appassite, un accenni di liquirizia, di legno e un vago sentore di funghi. Un bouquet molto piacevole, a mio dire. In bocca è ancora fresco, il tannino morbido, una bella sapidità; decisamente caldo e morbido.

Un vino con una bella struttura, equilibrato, è intenso e abbastanza persistente. Io non sono un esperta, ma l’ho trovato un vino eccezionalmente giovane, che richiede di essere aperto un bel po’ di ore prima per dare il meglio di sé.

Cosa mi è rimasto di questa serata?

Tanto, perchè ho potuto constatare con “mano” ciò che avevo potuto apprendere dalle mie ricerche: il Beaujolais non è per niente solo patria di vini novelli, o vini dozzinali, e chi lo afferma, forse non sa molto di questa regione e dei suoi vini.

Certo, non sarà la Borgogna, ma trovo che i vini proposti fossero tutti degli ottimi vini, meno semplici di quel che si può pensare, anche se i miei preferiti, ora posso dirlo, sono il terzo e il sesto.

Non so quanti possano dire di conoscere il Beaujolais, con tutte le sue sfaccettature, ma grazie alla nostra guida, Giorgio, che ha dimostrato di amare non poco questa regione, ora posso dire di saperne qualcosina in più!

P.S. Come sempre dovevo distinguermi e, alla fine della degustazione, sono andata via con un trofeo inaspettato: una bella bottiglia di Beaujolais Blanc! Ma conto di tornare a salutare Giorgio, per poter gustare una bella bottiglia di Beaujolais, magari un Morgon 2009 Chamonard! 😉

 

[1] Vino – Enoteca con mescita, Via Pier Lombardo, 9 • Milano; https://www.facebook.com/EnotecaVinoMilano

[2] Nato a Palermo nel 1988, cresciuto a Verona, ha studiato greco antico e moderno. Dottore di ricerca in linguistica, dopo un periodo passato in Francia, ha deciso di dedicarsi al vino. Vive a Milano, dove collabora con alcune riviste e case editrici in amito enogastronomico. Con Possibila ha pubblicato “Etna rosso – Versante nord” (2016) e “Cirò – I luoghi del gaglioppo” (2017)

[3] Con il termine climat, si fa riferimento un appezzamento di vigneto che, per la sua esposizione, la sua pendenza, la sua posizione , la sua altitudine e per i terreni con cui confina, dispone di una individualità propria, in ragione della quale le viti producono vini costanti per qualità e con caratteri peculiari, che li differenziano da tutti gli altri.

[4] Il termine Lieu dit, probabilmente, risale al Medioevo, viene utilizzato per individuare un qualunque appezzamento di terreno al quale da molto tempo, è stato dato quel particolare nome. Agli inizi dell’800 venne creato il catasto delle proprietà rurali e questa è una data certa che attesta con sicurezza l’utilizzo di questi nomi. I lieux-dits vinicoli, a volte, fanno riferimento alla composizione dei suoli, alla configurazione dei terreni o alle piante che crescevano in quel luogo. Il termine clos, invece, si riferisce ad un terreno recintato con muretti di pietre a secco, solitamente messi a dimora secondo alcuni per proteggere le colture dagli attacchi di animali selvatici come i cinghiali, ma più probabilmente per proteggere i vigneti dai venti freddi.

[5] Per approfondimenti vi rimando al seguente articolo di Giorgio: http://www.possibilia.eu/la-macerazione-secondo-mathieu-lapierre, e, ovviamente, agli altri post presenti su questo blog!

[6] Allevamento ad alberello (taille en gobelet): durante il periodo della crescita, i rami vengono legati tra di loro a dei pali, per formare una sorta di cesto.

Questo tipo di allevamento garantisce lo sviluppo dei rami in lunghezza, permettendo di ridurre gli interventi precoci e frequenti di potatura e permette di praticare, se opportuno, il defogliaggio verso la fine della maturazione, pur conservando una buona superficie fogliare.

In questo modo si può raggiungere una maturazione ottimale anche nelle annate più umide, limitando al massimo lo sviluppo della botrytis, grazie alla aerazione dei grappoli.

[7] http://www.chateaurontets.com

[8] Questo metodo implica una grande attenzione per quel che concerne la maturità di tutte le componenti delle uve e il loro stato di salute, poichè non è prevista la diraspatura e la solfitazione durante la fermentazione.

Le uve integre vengono poste nel tino saturato di anidride carbonica, senza lieviti aggiunti, zuccheri o solfiti, e macerano per un tempo che varia da due a quattro settimane,  anche più, senza alcuna pigiatura o rimontaggio. La maggior parte dei fenomeni di fermentazione avviene così all’interno dell’acino, in assenza di ossigeno, il che permette di sviluppare una ben specifica gamma di aromi.

Idealmente, la svinatura interviene allorché si è raggiunto lo stadio della “mortificazione” dell’acino, ossia quando il colore dalla pelle passa alla polpa. Si ottengono così vini caratterizzati da un colore elegante e dei tannini discreti e delicati. Dopo la pressatura il vino completa la fermentazione alcolica e malolattica in botti usate da 228 e 400 litri, successivamente si procede con l’imbottigliamento;, all’inizio dell’estate, senza nè chiarificazione nè filtraggio.

[9] http://www.marcel-lapierre.com/

[10] Agricoltori, artigiani, artisti.

I vini Triple A possono nascere solo:

–     da una selezione manuale delle future viti, per una vera selezione massale.

–     da produttori agricoltori, che coltivano i vigneti senza utilizzare sostanze chimiche di sintesi rispettando la vite e i suoi cicli naturali.

–     da uve raccolte a maturazione fisiologica e perfettamente sane.

–     da mosti ai quali non venga aggiunta né anidride solforosa né altri additivi. L’anidride solforosa può essere aggiunta solo in minime quantità al momento dell’imbottigliamento.

–     utilizzando solo lieviti indigeni ed escludendo i lieviti selezionati.

–     senza interventi chimici o fisici prima e durante la fermentazione alcolica diversi dal semplice controllo delle temperature. (Sono tassativamente esclusi gli interventi di concentrazione attuati con qualsiasi metodo).

–     maturando sulle proprie “fecce fini” fino all’imbottigliamento.

–     non correggendo nessun parametro chimico.

–     non chiarificando e filtrando prima dell’imbottigliamento.

Posted on: Luglio 27, 2018, by :